Sul piano delle indagini sull’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, “dopo l’inspiegabile e pretestuoso accesso da parte di funzionari della Prefettura nella sua residenza, asseritamente per prelevare delle lenzuola da usare per coprire i cadaveri in camera mortuaria”, c’è il giallo della cassaforte, “trovata inspiegabilmente vuota soltanto l’11 settembre, quando in bella evidenza viene scoperta la chiave, invano cercata per tanti giorni nel medesimo cassetto dove di solito era riposta. Misteri che nemmeno l’inchiesta dibattimentale al Maxiprocesso riuscirà a chiarire”. Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso, in occasione del convegno organizzato nel trentacinquesimo anniversario del delitto, oggi, a Palazzo Steri di Palermo.
Dopo le condanne inflitte nel Maxiprocesso ad alcuni mandanti facenti parte del vertice mafioso, le dichiarazioni di alcuni collaboratori, ha spiegato l’ex magistrato, “hanno consentito di individuare e processare tutti gli esecutori materiali, ma non di dare un volto agli eventuali mandanti esterni. E oggi tutto il materiale sinora raccolto, tutti i sussurri provenienti da Cosa nostra, depongono per un interesse esterno all’eliminazione del generale, addirittura antecedente di tre anni alla sua “missione” a Palermo”.
Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, Buscetta riferì che nel 1979, su incarico personale di Stefano Bontate, aveva contattato durante la comune detenzione al carcere di Cuneo il brigatista rosso Lauro Azzolini chiedendogli se le Br fossero disponibili a rivendicare l’attentato nel caso in cui qualcuno avesse ucciso Dalla Chiesa. La risposta fu tranciante: “Noi rivendichiamo solo gli attentati a cui partecipiamo”.
Pertanto per Grasso “è ipotizzabile che, non appena mandato in Sicilia, si fosse realizzata una coincidenza di interessi tra la nuova mafia Corleonese, che aveva sostituito ai vertici quella di Bontate ed Inzerillo, che lo vedeva pur sempre come un pericolo potenziale, e altri centri di potere, che ne temevano il potere costruito sul consenso o sulla conoscenza di segreti che, se rivelati, potevano risultare destabilizzanti o quantomeno imbarazzanti”.
Il collaboratore Giovanni Brusca riferì ai giudici di Caltanissetta che, a un certo punto, dopo la strage di Chinnici, arrivo a lui, da Roma, tramite Lima e quindi i Salvo, l’avvertimento di darsi una “calmata” (nel senso di non commettere altri delitti che turbavano l’opinione pubblica), perché altrimenti si sarebbero dovuti prendere seri provvedimenti repressivi. La risposta arrogante di Riina, che egli stesso riporto’ ai Salvo, per recapitarla al mittente, fu: “Ci lascino fare. Noi siamo sempre stati a disposizione per tanti favori che gli abbiamo fatto”. Di quali favori si tratta, ha concluso Grasso, “non si saprà mai. Provenzano ha portato nella tomba i suoi misteri e Riina non pare disposto a rivelarli”.
Del resto, coloro che avevano in precedenza sostenuto e apprezzato Dalla Chiesa come il salvatore della patria dal terrorismo, “per le stesse ragioni potevano averlo temuto particolarmente. Ne conoscevano l’intuito investigativo, la capacita’ organizzativa, l’intelligenza, la dedizione, l’impeto, l’incorruttibilità e anche una inveterata indipendenza di giudizio unita ad un indomito coraggio. Tutte queste qualità, unite alla memoria dei segreti di Stato del terrorismo, possono ben aver costituito un’incontrollabile miscela esplosiva, rappresentata da un uomo che non si e’ mai asservito alla politica e che sul fronte della mafia stava rivelando di averne compreso le evoluzioni in chiave Corleonese, soprattutto sull’asse Palermo-Catania. Un uomo che, sfruttando i rapporti con la stampa e l’opinione pubblica, parlando alla gente, andando nelle scuole, orientando le coscienze, stava innescando una rivoluzione che rischiava di spezzare l’egemonia sub-culturale della mafia e del sistema di potere ad essa collegato”. (AGI)