Scendi dal taxi, paghi il biglietto d’ingresso e arrivi all’inferno di Tuol Sleng, il famigerato carcere S-21, oggi “Museo del Genocidio”.
Il 17 aprile 1975, approfittando del collasso americano in Vietnam, i khmer rossi entrarono nella capitale stremata da anni di guerra e imposero la “dittatura del popolo”, o meglio, di quella parte di popolo miliziani giovanissimi e contadini analfabeti che l’Angkar riteneva degno di vivere. Tutti gli altri erano nemici di classe, controrivoluzionari, spie e traditori. Gente da eliminare. Abolito il denaro, chiuse tutte le scuole e le industrie, le città furono svuotate in pochi giorni e milioni di persone furono spedite nelle campagne per essere “rieducate”. Fu l’inizio del terrore rosso, un gorgo malefico che stritolò l’intero paese.
La Cambogia si chiuse ermeticamente su se stessa e il micidiale ingranaggio iniziò a triturare velocemente i ceti dirigenti d’anteguerra, poi i professionisti, gli insegnanti, gli artisti, i bonzi, i commercianti, gli artigiani e chiunque parlasse una lingua straniera, portasse gli occhiali, indossasse un vestito “non regolare” (l’obbligo per tutti era un pigiama nero), pregasse un qualche dio.
Non pago, nel 1976 il “fratello numero uno”, ormai in preda alla paranoia, diede avvio a una purga di massa all’interno dello stesso partito. Giorno dopo giorno le stesse file dell’Angkar iniziarono ad assottigliarsi mentre le carceri si riempivano di altri traditori e nuove spie; considerati “inadempienti” o “revisionisti”, gerarchi e semplici militanti finirono sulla loro stessa graticola, obbligati a confessare le cose più improbabili o a fare nomi di presunti complici. Per nessuno vi fu pietà.
Tuol Sleng divenne il crocevia principale di questo calvario. Chiunque vi entrasse veniva fotografato, torturato, interrogato e ancora torturato. Tutto era proibito, non si poteva parlare, non era ammesso piangere o lamentarsi, mangiare un insetto e nemmeno suicidarsi: barriere di filo spinato circondavano le celle ricavate dalle aule scolastiche, un modo per impedire che i detenuti si ammazzassero. Mentre i più umili restavano incatenati al pavimento o rinchiusi in fetide celle, ai dirigenti in disgrazia veniva concesso un trattamento di favore: una branda arrugginita e una scatola di latta per i bisogni corporali.
L’unica via d’uscita erano i camion che portavano i prigionieri a Choeung Ek, il campo della morte alla periferia di Phnom Penh. Per risparmiare le pallottole si uccideva con zappe e picconi, i bimbi venivano sbattuti contro gli alberi o infilzati dalle baionette. Dalle fosse comuni, 129 di cui 49 ancora intatte, sono stati riesumati 9mila corpi ma all’arrivo del monsone emergono regolarmente frammenti di ossa, brandelli di stoffa. Un sacrario ricorda la carneficina. Tutto s’interruppe il 7 gennaio 1979 quando i vietnamiti, stufi delle provocazioni di Pol Pot, invasero la Cambogia. Nel carcere ormai vuoto trovarono solo le foto e le macchie di sangue.