Il ritiro dall’Afghanistan delle truppe della Nato è un grande errore che può essere pagato molto caro. La scelta annunciata da Biden di riportare a casa l’11 settembre prossimo i militari americani, decisione alla quale si sono adeguati istantaneamente gli alleati europei, apre una stagione carica di incertezze per i Paese asiatico.
Il governo di Kabul è stato finora sostenuto dalla coalizione internazionale e le sue forze armate, faticosamente rimesse in piedi, hanno operato grazie al supporto indispensabile dei contingenti Nato. Uscito a brandelli da una lunga teoria di invasioni e guerre civili, le fragili istituzioni afghane devono fronteggiare contemporaneamente, in un contesto etnicamente composito, il ritorno della minaccia fondamentalista, presente non soltanto con i Talebani, ma con le cellule dell’Isis e di al Qaeda tutt’ora attive e l’arroganza dei signori della guerra produttori di droga.
L’accordo di Doha con i rappresentanti degli “studenti coranici”, ha messo al riparo le truppe straniere da una nuova ondata di atti ostili, ma non ha fatto cessare le quotidiane violenze nei confronti di militari, poliziotti o operatori dell’informazione afghani considerati “collaborazionisti” al soldo degli stranieri “infedeli”. I mujaheddin nostalgici dell’Emirato islamico dell’Afghanistan controllano buona parte delle aree rurali di un Paese vasto, con scarse e infrastrutture, nessuna ferrovia e una sola autostrada. Il controllo del territorio è stato finora garantito, con un alto costo di vite umane, proprio dai soldati della Nato che hanno schierato unità militari di prim’ordine e risorse tecnologiche avveniristiche.
L’Italia ha contribuito alla stabilizzazione e alla sicurezza dell’Afghanistan con il meglio delle sue Forze armate, lasciando sul terreno 54 caduti e un centinaio di feriti, alcuni dei quali porteranno per sempre i segni della missione sul corpo e nella mente. Gli uomini dell’Afghan National Army hanno potuto contare su addestratori statunitensi, britannici o italiani, hanno operato spalla a spalla con operatori della Delta Force, dello Sas o del Col Moschin, hanno avuto la certezza che in caso di bisogno un paio di jet o una cannoniera volante statunitense li avrebbero protetti dall’alto contro un nemico invisibile e letale. Ma a partire dal giorno in cui si ricorderà per il ventesimo anno l’attacco alle Torri Gemelle, tutto questo sarà storia vecchia. Persino i contractor occidentali che si occupano della manutenzione dei mezzi dell’esercito e della polizia di Kabul e della sicurezza delle istallazioni strategiche leveranno le tende lasciando nelle pesti i locali.
L’annuncio di Biden, che ha avuto una patetica coda nella scimmiottatura italiana messa in scena dai due pentastellati Gigino Di Maio e Manlio Di Stefano, fortunosamente e improvvidamente ministro e sottosegretario agli Esteri, rischia di far rivivere le stesse drammatiche scene che nel 1975 da Saigon rimbalzarono attraverso i telegiornali in tutte le case dell’Occidente, con i Sudvietnamiti terrorizzati e abbandonati alla mercé dei vietcong di Hanoi.
Ammainare la bandiera a stelle e strisce, e conseguentemente quelle degli altri contingenti della Nato, significa mettere in serio pericolo di vita decine di migliaia di poliziotti, militari, semplici interpreti, funzionari “colpevoli”, agli occhi del fondamentalismo, di avere contrastato il movimento talebano, per non parlare della minaccia che peserà sul ruolo delle donne o sulle libertà che hanno potuto assaporare, dopo anni di dittatura islamista, centinaia di migliaia di giovani. L’Afghanistan potrebbe, in breve tempo, trasformarsi nuovamente in un incubatore di terrorismo internazionale. Un film già visto in Iraq, con la ritirata Usa alla fine del 2011 che aprì la strada all’offensiva dell’allora neonato Isis. I tagliagole di al-Baghdadi, senza le truppe americane sul terreno, ebbero gioco facile e l’apparato militare irakeno si sciolse come neve al sole cedendo allo Stato islamico ampie porzioni di territorio.
Sotto il profilo geopolitico, poi, il ritiro dell’Occidente apre la strada all’ingresso in Afghanistan di nuovi e antichi attori. Il Paese asiatico, ricco di rame, cobalto, litio, ferro, oro e terre rare indispensabili per le nanotecnologie, è nel mirino di grosse compagnie internazionali. I Cinesi hanno da tempo iniziato, insieme agli Indiani, una politica di penetrazione commerciale che mira all’acquisizione di queste risorse naturali. Ma non solo, India e Pakistan, eterni nemici, finora si sono confrontati a distanza nel teatro afghano, con il disimpegno occidentale questo equilibrio potrebbe rompersi. Nuova Delhi è tra i maggiori sponsor dell’attuale governo di Kabul, il Pakistan, invece, storicamente sostiene i Talebani ai quali offre supporto sul terreno, per mezzo dei suoi servizi segreti, e solidarietà politica.
Alle spalle di Islamabad la Cina, alleata dei pakistani, che potrebbe accarezzare l’idea di un sostegno forte ai Talebani per condurre il Paese asiatico all’interno della sfera d’influenza di Pechino. Gli Stati Uniti hanno scelto di battere in ritirata dal Mediterraneo e dall’Afghanistan per concentrare la loro attenzione sull’Estremo Oriente, dove il Dragone cinese si muove con un protagonismo inedito e minaccioso. Ma, anche la semplice lettura di un classico, “il Grande Gioco” di Peter Hopkirk, dovrebbe suggerire di non lasciare in balìa di sé stesso un Paese che nella storia si è dimostrato di straordinaria valenza strategica tra Europa, Asia e Medio Oriente.