Ho fatto un sogno. Strano, inquietante. Quei sogni che ti inchiodano al letto senza avere la possibilità di dimenarti. Ti senti immobilizzato.
Sogni che al risveglio ti lasciano la bocca arsa, alla ricerca frenetica di un bicchiere stracolmo di acqua fresca, ma allo stesso tempo, ti danno la possibilità di riflettere.
Ho fatto un sogno che sembra un romanzo, ma sono bene che nei sogni le dimensioni spazio-tempo, non esistono. Non mi è possibile sapere quanto sia durato né il suo grado d’intensità. Sta di fatto che al risveglio, mi sono sentito parecchio stanco, afflitto, sfinito.
Eppure gli esperti sostengono che il sogno coincide con la fase Rem del sonno. Solitamente non dura più di qualche minuto. Il fatto di ricordare o meno il sogno, dipende dal risveglio. Se ci si sveglia poco dopo la fase Rem, quindi il sogno si ricorderà distintamente, se invece apriamo gli occhi a distanza di tempo dal sogno, si avrà la sensazione di avere solamente sognato. Il mio sogno, invece, appartiene al primo caso.
Mi sono svegliato ed ho avvertito un senso di astenia. Il mio corpo era stanco, i muscoli delle gambe e delle braccia doloranti, il battito cardiaco accelerato, come se quel “pugno” pulsante, volesse uscire, ed in fretta, dalla sua “custodia” toracica.
Una cosa è certa: ero sveglio, ma non avevo nemmeno la forza di alzarmi dal letto che era stato testimone del mio sogno. Ho preferito rimanere ancora sotto le lenzuola, soprattutto per non perdere il ricordo del sogno. Quindi ho socchiuso di nuovo gli occhi ed ho rivisto fotogramma dopo fotogramma il mio film onirico.
Ho riflettuto sul perché della stanchezza fisica. Ed ho capito a cosa era da attribuire. Nel sogno, infatti, ho attraversato lunghi corridoi di un ospedale che non saprei nemmeno identificare. Ricordo però i colori: verde quello delle pareti, grigio chiaro il linoleum del pavimento, le porte, invece, arancio-biondo.
Ho attraversato non saprei quante volte quegli interminabili corridoi illuminati da un tenue neon, con una luce non calda, anzi… Ho aperto e chiuso numerose porte: stanze di degenza, ambulatori, infermeria, medicheria… Ma non ho tralasciato nulla, infatti, ho preso minuziosamente appunti sul mio inseparabile moleskine nero, ma ricordo pure di non essermi mai fermato, nemmeno un istante, a parlare con medici, infermieri, pazienti o familiari degli ammalati. Nel sogno non c’erano.
In lungo ed in largo ho percorso il reparto più volte, senza capire quale fosse. Mi sono fermato solamente per prendere appunti. Poi, entrando in una di quelle stanze la cui porta era disposta ad un’altra di fronte, ma questa chiusa, mi sono ritrovato all’interno di un grande ed ovattato laboratorio di analisi. Sui banconi bianco marmo numerose provette di sangue, sieri, plasma, vetrini con tessuti, ampolle con liquidi, microscopi e reagenti vari. Ma non mancavano pure le centrifughe e le cappe.
Insomma mi ritrovai all’interno di quell’ambiente tutto solo ed ebbi pure il tempo di descriverlo minuziosamente sul taccuino nero. Gli occhi, però, tra un appunto ed un altro, mi si posarono su un bancone d’acciaio che si trovava in un angolo della stanza vicino ad una finestra che dava su un cortile di oleandri. In quel banco c’era una provetta ed accanto un foglio di carta intestata: Ospedali Riuniti San Giorgio. Evidentemente si trattava di un referto. Abbandonato di proposito? Oppure in attesa di essere completato?
Chissà! Lo lessi in fretta per paura che potesse entrare all’improvviso qualcuno e mi avrebbe scoperto in quell’ambiente. Riuscii a leggere dalla calligrafia incerta una sigla EHEC. La trascrissi con mano tremante sul taccuino. Non feci appena a finire di scrivere l’ultima consonante che lo sguardo finì di scorgere sempre sullo stesso bancone d’acciaio un’altra provetta con accanto un altro foglio bianco senza intestazione, stavolta, con su scritto a stampatello a grandi caratteri DEVONO MORIRE TUTTI.
Uscii immediatamente e mi ritrovai di nuovo ad attraversare il lungo corridoio. Non vedevo l’ora di abbandonare e, per sempre, quell’ospedale, quegli ambienti. Dovevo scappare via, ma allo stesso tempo dovevo comprendere il significato della sigla EHEC.
Ricordo pure che non era la prima volta che quella sigla aveva colpito la mia curiosità. Lungo il mio percorso non vidi nessuno, ma sentivo forte l’odore acre del disinfettante adoperato per i pavimenti. Improvvisamente la mia mente era come si fosse chiusa. Sigillata. Non accettava nulla, a parte il pensiero rivolto a quella sigla e a quella inquietante e funesta frase.
Trascrissi tutto, come la solito all’interno del mio taccuino nero. Quando stavo per completare gli ultimi appunti, improvvisamente, mentre ero appoggiato ad una di quelle porte che si affacciavano lungo il corridoio, una di esse di aprì alle mie spalle. Mi ritrovai all’interno di un bagno. Chiusi la porta e decisi, decisamente, di porre fine al dubbio che mi perseguitava e che aveva una sigla, appunto: EHEC.
Dalla tasca del giubbotto estrassi l’inseparabile tabla. Era già in funzione. Mi collegai ad un motore di ricerca e scrissi sulla stringa EHEC. Un invio e velocemente comparve il significato nel suo completo terrore: ESCHERICHIA COLI O157: H17. Come un lampo che squarcia una notte di piena estate calda, mi ritornò alla mente, dove e quando lessi per la prima volta, quel terribile termine scientifico. Si trattava del famigerato batterio-killer .
E’ il ceppo entero-emorragico del batterio Escherichia coli. L’infezione – continuai a leggere nel motore di ricerca – porta spesso a forti diarree emorragiche con insufficienza renale, la cosiddetta sindrome uremica emolitica potenzialmente letale. Una tossina che somministrata in quantità può portare anche alla morte.
Ed ecco, come un flash, rileggo sul taccuino nero l’altra frase di quel referto: DEVONO MORIRE TUTTI. Bingo! Presi altri appunti velocemente ma, allo stesso tempo, abbastanza significativi e soprattutto inconfutabili. Buttai giù non so quanti appunti, non lo ricordo, ma scrivevo velocemente, non dovevo perdere altro tempo prezioso.
Uscii in fretta dal bagno e mi ritrovai di nuovo ad affrontare il corridoio. Stavolta però, in fondo notai una figura. Vestita tutta di verde con calzari blu che iniziò, prima a passo normale e poi più velocemente a venirmi incontro.
Non sapevo come comportarmi, cosa fare… Restai ad attendere la sua prima mossa, così come attende un pugile su un ring di fronte al suo avversario, oppure due giocatori seduti uno di fronte all’altro davanti ad una scacchiera. Attendere il suo arrivo o scappare via? Presi la seconda decisione. Iniziai a correre lungo quell’interminabile corridoio che non aveva una via di fuga. Un’uscita. Più correvo e più, sempre più, quel lungo corridoio non aveva fine. Sentivo il cuore in gola ed i muscoli delle gambe duri come sassi. Non sapevo come comportarmi. Quella figura si avvicinava sempre più, quando presi una decisione: disfarmi al più presto del mio molestatine nero. Dovevo farlo. Era inevitabile. Capii che prima o poi quella figura mi avrebbe raggiunto e non volevo, per nessun motivo, che il mio taccuino nero contenente i miei appunti, finisse nelle sue mani.
Svoltai ancora come se mi trovassi all’interno di un labirinto un altro corridoio del secondo piano, sempre più illuminato e quasi alla fine vidi in fondo, in un angolo a pochi metri dalla reception dove di solito stanno infermieri e caposala, due grandi contenitori di plastica: uno marrone e l’altro bianco.
Mi voltai indietro per avere chiara la distanza che mi separava da colui o colei che mi inseguiva. Non vidi più nessuno. Presi una decisione, di quelle che non ti fanno riflettere come dire la fai e basta. Nascondere, anzi occultare il taccuino nero in fondo ad uno dei due contenitori. Lessi appena in quello marrone, con un pennarello rosso scuro: sporco. Infilai la mano e poi il braccio fino in fondo e tra le lenzuola nascosi il moleskine nero.
Tornai ancora a correre, quando mi ritrovai di fronte, apparsa come d’incanto, io me l’aspettavo alle spalle, quella inquietante figura vestita di verde.
Ero dentro, ancora nel cuore, del mio sogno. Non riuscii però a scorgere il suo viso. Era protetto. Da una maschera trasparente, di quelle che si adoperano negli ospedali, in sala operatoria, contro i rischi biologici. Non ricordo di avere notato i suoi occhi o i lineamenti del viso, né i colori dei capelli. Ricordo però che aveva mani piccole con guanti di lattice trasparenti che facevano intravedere le unghia abbastanza lunghe e colorate con uno smalto evidentemente scuro.
Era una donna, dedussi. Poco più alta di me, ma abbastanza energica malgrado le mani non molto grandi. Fuggivo da lei, ma non avevo paura. Scappavo via, per non farmi scoprire. Svoltai così, a gran velocità il corridoio, ma di colpo inciampai non so come. Fu la mia fine. La fine della mia corsa. Quella donna, non saprò mai se fosse un medico o una una infermiera, mi raggiunse. Nelle sue mani vidi una siringa che stringeva come se avesse un pugnale. Mi bloccò con la forza e senza aprire bocca, senza parlare mi afferrò con violenza il braccio sinistro e senza pensarci due volte mi conficcò l’ago iniettandomi un liquido dal colore giallo pallido.
Avvertii improvvisamente prima un gran caldo e poi freddo gelido in tutto le mie membra associato ad un senso di pace, di rilassatezza. Ero inerme, privo di forze. Piegato su me stesso, in ginocchio, appoggiato ad una parete del corridoio.
Estrasse dalla tasca di quel camice verde un lungo spiedino di acciaio di quello che si usano per le grigliate e me lo trafisse da parte a parte sulla scapola destra. Stranamente non avvertivo alcun dolore e nessun versamento ematico.
Ero inerme, come se non mi trovassi in quel momento, in quell’istante, in quei luoghi. Trascorsero alcuni secondi ed ebbi conati di vomito. Dalla bocca sgorgava copiosamente il sangue. Il mio.
Non si fermava, mi soffocava. Ero pietrificato e sentivo i brividi di freddo in tutto il corpo. Ero immobile, avvertivo che non avevo più forze, sensibilità alle gambe, alle braccia. Vidi però quella figura che mi chiudeva con delicatezza le palpebre. Per sempre.
Nel sogno avevo visto da vicino la mia morte. Ero stato testimone della mia fine…