“L’otto marzo, più che donare mimose, meglio raccontare, affinché certe vicende non accadano mai più, le storie delle donne vittime delle brutali aggressioni degli uomini che dicevano di amarle, ma che invece avevano l’unico obiettivo di controllarle”. E’ questa l’opinione di Lidia Vivoli, 47enne di Bagheria che nel 2012 è sopravvissuta al tentato femminicidio da parte dell’ex compagno il quale, in una calda notte di giugno, mentre lei dormiva, tentò di ammazzarla prima colpendola cinque volte alla nuca con una bistecchiera di ghisa, poi pugnalandola con un paio di forbici alle spalle, al basso ventre, al coccige, alla coscia e allo zigomo e, dopo averla trascinata per i capelli per tutta la camera, cercando di strangolarla con il cavo elettrico dell’abat-jour. Non riuscendo ancora ad ucciderla, provò in ultimo a finirla a pugni in faccia e a sgozzarla ad unghiate.
Però Lidia si batté come una leonessa e riuscì a salvarsi perché non perse mai conoscenza e nonostante il dolore, il sangue che le velava gli occhi e lo stato confusionale dovuto al trauma cranico, per tre ore rimase a parlare con il suo aguzzino, finché lui le concesse di chiamare i soccorsi, ma solo dopo essersi allontanato in auto. Lidia allora poté finalmente contattare il 118 e subito dopo la madre, alla quale per prima cosa disse il nome del suo torturatore, nel timore di poter morire da lì a breve.
E Lidia rievoca la sua storia parlando come un fiume in piena, senza trascurare i dettagli, ma mentre descrive, quasi con distacco, tutto ciò che ha patito, nei suoi occhi si leggono ancora angoscia e inquietudine. “Ci sono uomini che si approfittano delle momentanee fragilità delle donne, riuscendo a manipolarle, sono i cosiddetti narcisisti maligni. Quando nel 2011 ho incontrato, a una festa di amici comuni, quello che sarebbe diventato prima il mio fidanzato e poi il mio stalker e il mio mancato killer, ero stata da poco lasciata da mio marito; questa nuova conoscenza mi conquistò facendomi ridere, distraendomi così dalle mie preoccupazioni. Abbiamo deciso di andare a vivere insieme dopo qualche mese – spiega ancora Lidia – anche se lui era un barman disoccupato e praticamente ero io a mantenerlo. In un’occasione mi rubò anche dei soldi e in quel frangente, durante una discussione, ci fu un primo attacco fisico, mentre in altre circostanze spintoni e qualche schiaffo. Mai sottovalutare queste prime avvisaglie! Di questo mi faccio una colpa” afferma, amaramente, scuotendo la testa.
La donna soffre ancora dei postumi di quella tremenda aggressione e ha dovuto subire degli interventi ricostruttivi al volto e tutt’oggi ha problemi di mobilità e altre serie conseguenze; forse, se il manico della pesante bistecchiera, prima arma usata per l’agguato, non si fosse rotto, l’epilogo sarebbe stato tragico. Suona quasi come una beffa anche il fatto che, il giorno prima del tentato omicidio, la coppia si fosse recata al santuario di Tindari dove lui, davanti alla statua della Madonna nera riconoscendo le proprie colpe, aveva giurato che mai più sarebbe stato violento. “Ancora oggi mi chiedo perché? Perché tutta quella ferocia ingiustificata? Perché un assalto nel cuore della notte, quando fino a pochi minuti prima avevamo dormito abbracciati? Questa è la domanda che ancora mi pongo e credo non avrà mai una risposta sensata” dice Lidia con la voce rotta, mentre con la mente continua a tornare a quei terribili momenti.
Oggi Lidia sta ancora cercando di ritrovare la serenità perduta quella notte, ma con innumerevoli difficoltà poiché, fallita la compagnia aerea catanese per cui volava come hostess, non ha più un impiego e il suo passato, invece di agevolarla, l’ha bollata come “la ribelle che denuncia” rendendo sospettosi i possibili datori di lavoro. A starle accanto e a sostenerla adesso c’è un nuovo compagno che tre anni fa l’ha resa madre di due gemellini, un maschietto e una femminuccia, ma a non lasciarla mai c’è soprattutto la paura. Il suo seviziatore, classe 1968 originario di Terrasini, ha scontato appena 3 anni di carcere per tentato omicidio e sequestro di persona, ma a breve si attende l’esito di un nuovo processo per stalking; frattanto all’aggressore è stato imposto il divieto di avvicinarsi alla cerchia di paesi attorno a Bagheria. Ma questo non basta a tranquillizzare Lidia che teme sempre di vederselo comparire davanti, magari quando si reca a Palermo per i suoi problemi di salute, conseguenza della notte degli orrori.
E inoltre, mette in guardia Lidia: “mai scambiare per gentilezza, la pretesa di mariti e fidanzati di volerci accompagnare sempre e dovunque, perché si tratta solo di escamotage per pilotare la nostra vita. Il vero amore implica fiducia, mai quindi accettare di farci controllare il cellulare o fornire le password per l’accesso ai social”. Ma Lidia, pur ostentando forza, continua ad avere paura. Quella paura che l’ha spinta a scrivere quattro volte al presidente della Repubblica e che ha indotto Mattarella a risponderle che avrebbe esortato le forze dell’ordine a tenere sempre sotto osservazione il suo caso.
“Fatti del genere cambiano in peggio le vite delle vittime, ma non alterano più di tanto l’esistenza dei carnefici, che invece spesso vengono giustificati per i loro malsani comportamenti. Capisco pure che molte donne vittime di violenza scelgano di non denunciare gli abusi perché il più delle volte le pene sono irrisorie e, presto fuori dal carcere, le angherie vengono quasi sempre reiterate – dice ancora con rammarico e aggiunge – le donne che denunciano non sono giudicate soltanto in tribunale, ma anche dalla loro stessa comunità e le loro vite rivoltate come calzini, quasi a voler individuare chissà quali responsabilità nell’aver scatenato le violenze”.
Lidia oltre che provata, anche a distanza di anni da quel traumatico evento, è anche delusa dall’atteggiamento dei suoi compaesani. “La mia comunità – riferisce – si è trincerata dietro il muro del silenzio. Ho perso tutti gli amici, nessuno a Bagheria mi ha sostenuto nella mia battaglia per la giustizia e non riesco più neppure a trovare un lavoro. Questo atteggiamento di isolamento e muta disapprovazione, finisce per far sentire colpevoli le vittime”.
E allora, come ritiene Lidia, che sia pure un otto marzo senza mimose, purché sia un giorno di riflessione, per veicolare sentimenti di rispetto e comprensione, anche se, benché siano passati molti anni dall’istituzione di questa celebrazione, molti comportamenti di prevaricazione di alcuni uomini e di sottomissione da parte di alcune donne sono rimasti immutati, retaggio di cliché difficili da estirpare.