IL RACCONTO – Giovalli Collelodoli, l’ingegnere amico di “Nivola”

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Giovalli Collelodoli, per gli amici Giò, nacque settimino sotto il segno del Toro e sarebbe potuto diventare qualcos’altro se sua madre Maria non avesse avuto tanta fretta e avesse atteso, invece, per altri due mesi.

Anni dopo, infatti, la madre confessandosi con la cognata Annita disse: «Avrei preferito che Giovalli diventasse avvocato, dottore, geometra o sacerdote, ma mai avrei pensato che…».

In quel tempo infatti morì zio Pietro, il fratello scapolo del padre di Giò. Lo zio aveva promesso di dare al primo nipote parte dell’eredità che avrebbe lasciato in parti uguali fra una donna quasi di strada che l’amava e ad un educandato di suore.

Zio Pietro, per la sua quarantennale pratica di guardiano dell’educandato sospettoso al massimo, immaginò una relazione peccaminosa fra la madre di Giò e uno dei tanti uomini che frequentavano la sua casa, sicché quando mesi dopo morì, dimenticò nel suo testamento il primo nipote.

Io sottoscritto Pietro Collelodoli nato a Castelbuono nomino eredi suor Genoveffa La Spisa del Collegio di Maria e Giovanna Sapienza. L’usufrutto delle mie proprietà a mia moglie Annita Castello. A mio fratello Angelino un mobile della mia casa della Pintorna a sua scelta. Queste sono le mie ultime volontà?

Giovalli in realtà avrebbe dovuto chiamarsi Giovanni, ma Gioacchino Caracausi, impiegato dell’Ufficio Anagrafe, dal quale il padre di Giò andò per denunciare la sua nascita, distratto da tutte quelle “elle” del cognome, sbagliò nella trascrizione ed invece di scrivere Giovanni Collelodoli, nato a Castelbuono il 18 gennaio 1923 trascrisse Giovalli Collelodoli. Sicché per tutta la vita quell’errore gli pesò addosso ironicamente.

Ma di tutto ciò e dell’eredità sfumata, Giovalli lo seppe soltanto quando aveva 19 anni, tanto da trascorrere il tempo della fanciullezza senza tanti pensieri.

Suo padre Angelino fece il camionista in una cooperativa locale e trasportava legname da un paese della Sila, Trepidò Soprano, fino in Sicilia. Legname destinato alla costruzione di botti, scale, ed anche ad alimentare i camini ed i forni delle Madonie.

Era un uomo di statura media e indossava quasi sempre camicie bianchissime sostenute sopra il gomito da un elastico. Adorava le belle donne ed il coniglio alla cacciatora, selvaggina che cacciava con la sua doppietta tra gli anfratti di Passo Scuro.

Taciturno per natura, a volte stava delle intere settimane senza parlare, tanto che la moglie dimenticava quasi il suono della sua voce. Aveva una sua teoria secondo la quale ogni uomo i maggiori sacrifici li fa per costruirsi una vita sbagliata.

Quando Giò aveva tre anni suo padre con un po’ di soldi messi da parte aprì un’officina nel cortile di casa sua che si trovava nel quartiere Testavecchia e diede ordine a due ragazzi di bottega, i fratelli Peppe e Mariano Targia, di togliere e mettere da parte almeno qualcosa da ogni macchina che si fermava in officina per riparazioni.

Tant’è che in meno di dieci anni si dovette allargare al lato destro del cortile un magazzino, per contenere tutti i pezzi di ricambio: dalla vite al fanale che avevano messo da parte.

Fino ad otto anni Giò crebbe smilzo ed alto come se avesse ingoiato un manico di scopa. Aiutò il padre in officina e a 11 anni riuscì a smontare per la prima volta da solo il motore di una Bugatti ed a rimontarlo senza fare rimanere pezzi o magari qualche vite di troppo.

Giò ebbe presto fama in paese di ottimo meccanico, riportando così le invidie di Vincenzino Calì o di Pasquale Macinga, artigiani assai provetti e ricercati non solo a Castelbuono, ma anche in altri paesi vicini.

Ed un giorno di maggio, che sembrava già estate, si fermò al bar della piazza un forestiero di passaggio in sella ad una moto Guzzi che non poté più ripartire. Giò si avvicinò alla motocicletta cercò di farla ripartire e poi disse, deciso senza indugi «ci sarebbe la candela sporca». Senza attendere l’ordine Giò la ripulì e come vide che la Guzzi si mise in moto, il forestiero gli regalò 5 lire.

Giò gli chiese come si chiamasse e lui rispose Tazio. Nuvolari Tazio. «Non hai mai sentito prima d’ora questo nome?», disse indossando il casco di cuoio ed i grandi occhialoni, prima di rimettersi in sella per ripartire in direzione di Cefalù.

Fino a 19 anni la vita non fece a Giò dei grandi regali, se si toglie quella volta in cui si buscò la scarlattina. Fu Luigi Martorana a contagiarlo. A sua volta Luigi l’aveva avuta da Vicè Pupillo, ma ciò non toglie che la colpa di averla trasmessa a Giò, fosse tutta sua.

Luigi era chiamato il “bossolo”, da quella volta in cui Giò e gli altri della compagnia che si ritrovavano sempre a porta San Paolo, appresero che in paese c’era una “mezzacartuccia”: il padre di Luigi, un omino con due baffetti alla Charlot che faceva lo scritturale dal notaio Antonio Lupo.

La mamma di Giò, la signora Maria Carollo non voleva che suo figlio portasse Luigi in casa, se non altro perché aveva la cattiva abitudine di dimenticare in tasca i ninnoli che trovava sui tavolini e poi perché non la smetteva mai di andare nel pollaio a vedere se le galline avessero le uova e invece di sondarle col mignolo lo faceva col dito medio sicché una volta, per una settimana, in casa di Giò non ebbero uova.

La signora Maria da giovane aveva vissuto ad Isnello – suo padre era intagliatore di professione – e sapeva modellare il legno o vestire di stoffa i piccoli pezzi di ferro, trasformandoli in magnifici soprammobili.

Quando gli venivano bene non li vendeva quasi mai, gli altri, invece, li regalava qua e là. Una volta ne regalò dieci all’educandato di suore del convento del Collegio di Maria, dove zio Pietro era stato guardiano e le giovani clarisse regalarono a Giò un vassoio di cosi chini (dolci di pasta frolla ripieni di marmellata, noci, e fichi secchi).

La signora Maria era per niente cattiva, ma non voleva che gli altri, soprattutto il marito ed i figli, toccassero i suoi “preziosi” ninnoli.

In casa ne aveva centinaia disposti ovunque, anche sulle spalliere di legno dei letti, tanto che la sera Giò sentiva suo padre bestemmiare quando si coricava e gliene cadeva qualcuno in testa. Però se si toglie questa mania la signora Maria era una donna tutta casa e chiesa.

Frequentava, infatti, ogni pomeriggio non solo la sezione dell’Azione Cattolica, che aveva sede al convento dell’Itria, ma anche la Matrice Vecchia dov’era parroco don Gioacchino Sparacino, fratello del fabbro Silvestre che, ogni giorno regalava alla signora Maria i pezzi di ferro inutilizzabili che poi venivano “impupati” per diventare soprammobili.

La signora Maria dopo Giovalli ebbe altri due figli: Antonietta per rispetto della suocera che si chiamava, Antonietta Scaccino, ed Anna, in onore della Santa Patrona, venerata nella Cappella Palatina, ma voleva bene a Giò solamente, tanto che le altre si affezionarono al padre e divennero delle brave massaie, malgrado Angelino avesse preferito avere altri due maschi da impiegare, una volta grandi, nell’officina alla Testavecchia.

Giò più che meccanico era un costruttore. Pensava che da grande avrebbe fatto l’ingegnere e costruito una macchina a due ruote come una motocicletta ma a quattro posti come un’automobile.

Ad 8 anni, una sera, vide un’auto da corsa con i parafanghi rosso ruggine come sopracciglia corti sulle ruote ed un radiatore quadrato. Da quel momento fino a 19 anni Giò penò tanto per farsi una macchina da corsa tutta sua. Finché gli riuscì.

Trascorse intere notti insonni all’interno dell’officina a costruirsela, partendo naturalmente da un suo disegno abbozzato sulla carta color paglierino racimolata ogni volta che andava a comperare il pane a “Strata Longa”.

Passò poi alla pratica, costruendo la scocca, e sul bancone, successivamente assemblò il motore, racimolando tutti i “pezzi” raccolti dal padre e custoditi gelosamente all’interno del magazzino come se fosse un reliquario.

Non perse di vista però quel piccolo uomo che gli aveva regalato 5 lire e che portava il nome Tazio. Il 10 maggio 1931, infatti, Nuovolari vinse la mitica Targa Florio a bordo di un’Alfa Romeo 8C 2300, mettendo alle spalle Baconin Borzacchini su Alfa Romeo e Achille Varzi su Bugatti.

Giò voleva emularlo. E lo fece davvero. Costruì, in meno di due mesi, giorno e notte, il “suo” gioiello rosso fiammante. Una monoposto da fare invidia a quei bolidi che partecipavano, a quel tempo, alla Mille Miglia o alla Targa Florio-Giro di Sicilia che lì a poco avrebbe visto protagonista anche il giovane Giò Collelodoli, di Castelbuono, nell’edizione del 1948.

Giò, purtroppo non arrivò sul podio, ma a termine dell’estenuante gara lungo il piccolo circuito delle Madonie, si avvicinò ai box il vincitore, tale Clemente Biondetti, in compagnia di Tazio Nuvolari presente alla gara ma non da protagonista e rivolgendosi al giovane dissero, quasi in coro: «Ragazzo sei stato grande. Un giorno sarai protagonista anche tu. Tenacia, ragazzo, tenacia…».

E Nuvolari aggiunse: «Come ti chiami? Da dove vieni?». Il giovane pilota, senza farselo dire due volte rispose: «Mi chiamo Giò Collelodoli e vengo da Castelbuono. Non ricorda un giorno di maggio di tanti anni fa quando la sua Guzzi si “piantò” e non ripartì più? Quello che riuscì a metterla in moto, dopo avere pulito la candela, ero io. Per servirla. Ora ricorda?».

Giò, purtroppo non vinse mai né la Targa Florio né tanto meno la Mille Miglia. Ancora oggi invece, lungo le strade di Castelbuono, riecheggia il suo nome e tutti lo ricordano come l’ingegnere che seppe stupire i grandi piloti con la sua monoposto assemblata con i “pezzi” racimolati nel tempo in quella angusta officina di Testavecchia.

Forse un giorno a lui sarà dedicata una strada o una piazza con tanto di targa: «Qui nacque Giò Collelodoli, settimino con la passione dei motori. Amico del grande “Nivola”. A peritura memoria i cittadini posero».