Trattativa Stato – mafia, in Aula il generale Subranni: “Il pentito Di Carlo non ne parlò alla Corte di Assise”

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“Il pentito Francesco Di Carlo si riaffaccia sulla scena 34 anni 4 mesi e 3 giorni dalla scomparsa di Peppino Impastato. E a 15 anni dalle sue originarie dichiarazioni sul caso e ben sei interrogatori privi di qualunque riferimenti al sottoscritto, ai miei trascorsi professionali. E non è superfluo evidenziare anche che costui non ne ha parlato nemmeno davanti alla Corte di Assise che processò Badalamenti e Palazzolo per quel delitto!”. Voce roca e graffiante per il generale dei carabinieri Antonio Subranni, 85 anni, che sta rendendo dichiarazioni spontanee al processo sulla trattativa tra Stato e mafia.

Riprende dunque dopo la pausa estiva – nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo – il procedimento dinanzi alla Corte di assise presieduta da Alfredo Montalto. L’accusa è rappresentata dai pm della Procura di Palermo Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia e dai sostituti della Direzione nazionale antimafia Francesco Del Bene e Nino Di Matteo, quest’ultimo applicato a questo processo. Subranni – imputato in questo processo di violenza e minacce a corpo politico dello Stato – dal 1990 al 1993 – è stato comandante del Ros dei carabinieri ed in precedenza aveva condotto le indagini proprio sul giovane esponente di Democrazia proletaria ucciso a Cinisi, il 9 Maggio 1978.

“Di Carlo – rileva Subranni – nel corso di due udienze nel 2014 ha sostenuto che io sarei intervenuto su richiesta di Antonino Salvo per orientare le indagini, depistandole, per evitare conseguenze nei confronti di Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi. Peppino Impastato fu trovato morto lo stesso giorno in cui le brigate rosse, a Roma, uccisero l’onorevole Aldo Moro. Subranni descrive il clima di quegli anni e la scena del crimine faceva propendere per il suicidio.

“Una tesi mai confutata anzi condivisa da magistrati e medici legali che intervennero sul posto”. “Mai il dottor Chinnici ebbe a dire alcunché sull’operato del sottoscritto – ha proseguito Subranni – e dopo la sua tragica scomparsa il dottor Caponnetto si occupò dell’inchiesta, ne chiese l’archiviazione e nulla ebbe, nemmeno lui, da dire sul mio operato; anzi, nel provvedimento da lui redatto, egli scrisse “Del resto, lo stesso Colonnello Subranni precisava di avere appreso “attraverso i contatti tenuti con l’Autorità Giudiziaria (aggiungo io, il dott. Chinnici), che “nel corso di ulteriori indagini erano venuti fuori elementi tali da far ritenere possibile una causale diversa da quella formulata con il rapporto”.

Subranni – continua citando Caponnetto – “nella successiva deposizione del 16 luglio 1982, lo stesso Colonnello Subranni, in termini ancora più espliciti e con una lealtà che gli fa onore, dichiarava: nella prima fase delle indagini, si ebbe il sospetto che l’Impastato morì nel momento in cui stava per collocare un ordigno esplosivo lungo la strada ferrata. Questi sospetti, però, vennero meno quando, in sede di indagini preliminari, svolte dai magistrati della Procura, emersero elementi che deponevano più per l’omicidio che per una morte accidentale cagionata dall’ordigno esplosivo. Dalle indagini – prosegue il generale – a suo tempo svolte emerse in maniera certa che Impastato era seriamente e concretamente impegnato nella lotta contro il gruppo di mafia capeggiato da Gaetano Badalamenti” e che questi era accusato da Impastato di una serie di illeciti?”. (AGI)