Nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia l’accusa, nella sua requisitoria all’aula bunker dell’Ucciardone, mette a fuoco anche il ruolo di Marcello Dell’Utri: “Dopo Lima, Cosa nostra cerca una interlocuzione con l’imputato Marcello Dell’Utri. Quest’ultimo è l’opzione politica individuata da Cosa nostra, da Riina in persona”.
Il tentativo di contatto nasce tra la fine del 1991 e il primo semestre del 1992. “E questo avviene – sostiene il pm Roberto Tartaglia – con il classico metodo mafioso: l’avvertimento, le minacce, l’intimidazione, il contatto. Le intimidazioni sono gli incendi alle sedi Standa, a Catania, in seguito al quale si realizza il contatto “Cosa nostra-Dell’Utri”.
Anche Riina, secondo l’accusa, in una intercettazione del 22 agosto 2013, dice: “…lo cercavamo… lo misi sotto… dategli fuoco alla Standa… così lo metto sotto”. E poi anche il boss Giuseppe Graviano – anche lui intercettato mentre parla in carcere con il compagno di socialità: “… nel ’92 lui voleva scendere… ma c’erano i vecchi…”. Ciò rientra, secondo l’accusa, “nel progetto, delirante, di Salvatore Riina, che prevedeva di eliminare i rami secchi (come Lima che non aveva rispettato i patti), contrapporsi allo Stato (le stragi). E successivamente di fare politica, prima attraverso “Sicilia Libera”. Successivamente Cosa nostra decide di “puntare” invece su alcuni nomi da far convergere nel Centro destra, “facendo inglobare il progetto politico in Forza Italia”.
“Per capire chi è Subranni dobbiamo citare ciò che ha messo a verbale la signora Agnese, vedova del giudice Paolo Borsellino: “Ho visto la mafia – ha detto, riferendo le parole del giudice – in faccia, Subranni è punciutu”.
E’ il rapporto “anomalo fittissimo” tra l’ex ministro Dc Calogero Mannino con i carabinieri, al centro del secondo giorno della requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia. E’ sempre il sostituto Roberto Tartaglia a parlare. Dinanzi alla Corte d’assise, nell’aula bunker de carcere Ucciardone, di Palermo, l’accusa sostiene che “non si può sentire che la signora Agnese l’ha detta troppo tardi… come se la signora Agnese fosse un collaboratore di giustizia che ha l’obbligo di riferire tutto entro 180 giorni…”.
Il “filo rosso” che lega Calogero Mannino – secondo i pm – ai carabinieri era sempre presente. Anche quando comincia a girare l’anonimo denominato Corvo 2 – ha detto Tartaglia – in cui vi erano accuse anche contro l’ex ministro, Subranni “ispira” un lancio Ansa da cui si evince che le forze di polizia (carabinieri) ritengono quelle del corvo illazioni e accuse assurde. E poi lo stesso Subranni – mentre l’aggiunto Paolo Borsellino e il sostituto Vittorio Aliquò gli hanno affidato la delega di indagini – scrive un biglietto all’allora procuratore Giammanco consigliando di archiviare tutto”.
“Il rapporto mafia-appalti – ha proseguito il pm – è divenuto una sorta di panacea difensiva. Falcone? Indagava su Mafia-appalti. Borsellino? Cercava il rapporto mafia-appalti”. La verità – secondo l’accusa è che anche in questo caso c’è stato un insabbiamento e uno sviamento: “nel primo rapporto ci sono solo nomi di mafiosi. Soltanto diciannove mesi dopo, nel settembre 1992, quando le stragi furono compiute e cominciano le fughe di notizie, spunta una seconda versione del rapporto in cui spunta anche il nome di Mannino”.
“Ci soffermeremo a lungo su tutte le vicende del 1992 che hanno incrociato le stragi di Capaci e via D’Amelio. Quindi l’analisi di quanto emerso nel dibattimento in particolare su quanto accadde in Cosa nostra nel 1992 e quanto successe dal punto di vista politico nello stesso anno. E anche la trattativa tra politici e, con l’intermediazione di Vito Ciancimino, con Salvatore Riina e Bernardo Provenzano”. Ha esordito così il sostituto della Procura nazionale antimafia, Nino Di Matteo, iniziando la sua parte di requisitoria nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia, in corso nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Nino Di Matteo, cita in primo luogo l’audizione, il 20 marzo 1992, nelle commissioni parlamentari dell’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi e del ministro dell’interno, Vincenzo Scotti: “Denunciarono il rischio concreto – dice il pm – di una vera e propria destabilizzazione degli assetti democratici dello Stato. Entrambi non arretrarono di un millimetro anche di fronte all’atteggiamento dei parlamentari. Parlarono di immanente gravita'”.
Il ministro dell’Interno di allora, ha aggiunto Di Matteo, “ha manifestato totale indisponibilità a scendere a qualsiasi compromesso con la criminalità organizzata. Una serie di segnali – prosegue Di Matteo riportando le parole di Parisi – ci imponeva di dare una reazione concreta. Si è realizzata una vera e propria svolta che non risolve il problema ma che promette migliori azioni per il futuro”.
“Dobbiamo denunciare pubblicamente questa situazione. Non abbiamo – continuava Parisi – parlato di golpe ma di elementi indiziari finalizzati a interrompere la linea della fermezza”. Cosa si era verificato? C’era il rischio di attentati nei confronti di due ministri (Mannino e Vizzini) e di colpire anche il presidente del Consiglio (Andreotti), rapendo un suo stretto familiare. Ancora prima che Scotti e Parisi venissero auditi nelle commissioni, “il presidente del consiglio Andreotti aveva però aveva bollato tutto – attraverso il Corriere della Sera – come “una patacca”. Può essere – aveva replicato Parisi – ma noi abbiamo il dovere di verificare, di riscontrare”.
“Non lancio un allarme sociale a cuor leggero. E’ finalizzato – ha ricostruito il magistrato rileggendo le dichiarazioni di Scotti – a provocare un’allerta nelle istituzioni e nei cittadini. Perché nascondere ai cittadini che siamo di fronte ad un tentativo di destabilizzazione da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo. Se qualcuno ritiene che questo non sia vero io sono pronto alle dimissioni ma non cedo il passo su questo terreno. Nessun compromesso, nessuna mediazione, chiarezza con l’opinione pubblica: è questo un vero e proprio programma politico del ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti – sostiene l’accusa – che viene pronunciato di fronte ai parlamentari che invece ne chiedono le dimissioni, con un presidente del Consiglio che parla di “patacche”. Una linea della fermezza che viene pronunciata a marzo, poco dopo l’omicidio Lima. L’isolamento del ministro dell’Interno è proseguito, anche se dopo la strage di Capaci l’allarme doveva essere rivalutato”.
“Il decreto sul carcere duro, il 41 bis, nacque esclusivamente sull’asse Martelli-Scotti, ministri della Giustizia e dell’Interno. Fu varato l’otto giugno 1992 anche se la prima vera applicazione avvenne dopo la strage di via D’Amelio. Il clima nel nostro Paese era di scontro totale: il 41 bis era una questione che assillava Cosa nostra ed è su questo terreno che si assiste in quel periodo alla contrapposizione tra due linee: quella della fermezza (Scotti-Martelli) e quella della prudenza dettata dal timore che dopo Capaci, Cosa nostra proseguisse nel suo progetto contro i politici. In quello che Riina aveva definito la “puliziata dei piedi”, ovvero eliminare i rami secchi, ciè i politici che non avevano rispettato i patti, prima di iniziare un nuovo percorso con nuovi referenti”. Lo ha detto il sostituto della Procura nazionale antimafia, Nino Di Matteo, proseguendo la requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia. “In questo clima arroventato – ha affermato il magistrato davanti alla Corte d’assise, presieduta da Alfredo Montalto – si inserisce il dialogo, la mediazione o per meglio dire la trattativa – tra il Ros, i suoi massimi vertici, cioè Subranni, Mori e De Donno, con Vito Ciancimino”. E Vito Ciancimino viene individuato quale “canale privilegiato per avviare la trattativa – ha detto Di Matteo – in virtù dei pregressi rapporti esistenti tra Mario Mori e l’avvocato Ghiron, quest’ultimo divenuto poi legale di Vito Ciancimino”.
“Su questo processo – ha aggiunto Di Matteo – si è detto e scritto di tutto. E’ stato definito una messa in scena, una bufala. Questa continua descrizione stride però con i dati di fatto. Voglio partire da una elemento di prova acquisito quando nessuno ipotizzava di aprire una indagine sui vertici del Ros e su Vito Ciancimino. Questo elemento di prova è costituto dalle stesse parole di Mori e De Donno davanti alla Corte d’assise di Firenze. Parole chiare, inequivoche che non lasciano spazio al dubbio sull’esistenza della trattativa. Il teste Mori ha detto: “andammo da Ciancimino e gli dicemmo cos’è sta storia, questo muro contro muro? Da una parte Cosa nostra e dall’altro lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?”. E il sostituto della Procura Nazionale Antimafia si è spinto in un paradosso: “Ha ragione Riina, dunque, quando dice mi hanno cercato loro. Loro non sono lo Stato, sono il reparto di eccellenza dei carabinieri. L’ammissione della trattativa proviene proprio dal generale Mario Mori, davanti alla Corte di assise di Firenze che indagava sulle stragi in Continente, il 27 gennaio 1998”. Questa ammissione – sostiene il pm – avviene in periodo in cui si sentivano “intoccabili” (Mori e De Donno) anche “per una certa inerzia della magistratura di fronte a fatti in cui protagonista è sempre il Ros: la mancata perquisizione del covo di Riina, il mancato arresto di Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto, l’omicidio del boss Luigi Ilardo: “in quel momento Vito Ciancimino e’ in missione per la mafia, come disse Provenzano a Giuffre’. Mentre Mori e De Donno – ha aggiunto Di Matteo – erano a loro volta in missione segreta per ammorbidire la linea di cosa nostra anche andando contro alla linea della fermezza nel contrasto alla criminalita’ organizzata”.
“Bisogna distinguere ciò che abbiamo sostenuto nel corso di questa requisitoria sul Ros dei carabinieri del 1992 e sui suoi vertici di allora, Subranni, Mori e De Donno, rispetto al giudizio sul Ros in generale, anche quello attuale, con cui lavoriamo con fiducia totale e con la consapevolezza della bravura e della serietà del raggruppamento”, ha puntualizzato il pm Roberto Tartaglia nella requisitoria del processo sulla trattativa Stato-mafia distinguendo il giudizio della Procura sull’operato dell’attuale Raggruppamento operativo speciale dell’Arma da quello espresso, nel corso del processo, sui suoi vertici negli anni delle stragi mafiose. La Procura, nel dibattimento, accusa Mori, Subranni e De Donno di aver fatto da tramite tra mafia e pezzi delle istituzioni e di aver pure orientato i disegni criminali di Totò Riina spingendolo verso un’azione finalizzata alla destabilizzazione dello Stato. (AGI/ANSA)